di Carlo
I/227° Rgt. - 1ª Compagnia – Comandante di Compagnia
nato a Piacenza 4.12.1907
Deceduto il 31.3.43 in Prigionia, campo 56 – Uciostoj (Uciostoje Хоботово)
Le case popolari piacentine di via Primogenita 19, annoverano ben tre dispersi in Russia: i fanti Tuzzi e Zucconi e il capitano Dodi.
Erminio Zucconi nato a Piacenza nel 1921, lavorava come falegname nel mobilificio Tirotti; fece il servizio di leva a Milano e dopo pochi mesi, nell’agosto del 1942, partì per la Russia con la “Sforzesca”. (Nello stesso tempo un fratello era militare in Corsica). Con lui erano altri piacentini che non tornarono; Giuseppe Galli e Eusonio Abbiati. Non ci è stato possibile rintracciare le lettere che lo Zucconi scriveva dal fronte in quanto sono sparse e divise fra i sette fratelli e sorelle che le conservano come preziose reliquie, ma i congiunti ricordano che il loro caro dal fronte chiedeva sigarette forti perché la temperatura era più bassa e occorreva scaldarsi e vincere la sonnolenza che afferrava nelle lunghe notti di veglia, un passamontagna e altri indumenti di cui coprirsi perché ciò che aveva non bastava. Nella lettera del 12 dicembre ’42 che fu l’ultima avvertiva che la posta da allora in avanti non sarebbe arrivata regolarmente perché cominciavano il freddo intenso e le bufere. Invece doveva già essere cominciato l’attacco e il fante Zucconi voleva tranquillizzare la famiglia e giustificare il naturale ritardo della posta onde evitare ansie e patemi d’animo. Risulta disperso nell’ansa del Don nel gennaio 1943; malgrado le ricerche fatte in ogni direzione non si ebbero più sue notizie.
L’artigliere Virginio Tuzzi era nato a Calendasco nel 1916. Lavorava alla Cementi Rossi, era sposato ed aveva una bambina di 15 mesi, Giovanna. Partì per la zona di operazioni il 4 luglio 1942 dopo avere trascorso lunghi mesi sotto le armi a Piacenza e a Reggio Emilia. Nelle cartoline inviate alla famiglia parlava di molte marce a piedi, di fatiche, di disagi. Le ultime sue notizie risalgono al dicembre di quello stesso anno. Fu dato disperso il 30 gennaio 1943. Un tenente di Reggio Emilia, che ebbe la fortuna di tornare, affermò di aver visto Virginio Tuzzi in dicembre, e di ritenere che fosse stato fatto prigioniero.
Il capitano Giuseppe Dodi, nato a Piacenza nel 1907, si era abilitato ragioniere all’istituto tecnico “G.D. Romagnosi”, ma si era poi trasferito a Milano dove si era impiegato nella ragioneria del Comune di quella città. Ebbe vari richiami per aggiornamento e quando partì per la Russia nell’ottobre del 1942 era sposato da parecchi anni con una piacentina, Bruna Cornia, e aveva una bimba di 5 anni, Gabriella. La copiosa corrispondenza ricevuta dai familiari ci permette di seguire passo per passo il nostro concittadino nel suo viaggio verso l’est. Varcò il Brennero con il 277° reggimento fanteria della divisione “Vicenza” l’8 ottobre; passò per Vienna che vide solo dal finestrino e per la Slovenia. “Le località che stiamo attraversando – scriveva – assomigliano molto alle nostre e se non ci fossero costruzioni in stile molto diverso mi sembrerebbe di essere in Italia”. L’11 erano a Raczon sulla linea Cracovia-Leopoli, ed il 13 attraversò la frontiera russa. Dice una lettera del 14 ottobre: “Da ieri alle 16 ci troviamo in territorio russo. Il paesaggio è molto diverso da quello che fino ad oggi abbiamo visto. Distese interminabili di campi coltivati a grano, senza un albero, danno l’impressione di vedere il mare. Si cominciano pure a vedere le rovine della guerra. Quasi tutte le stazioni sono incendiate. La nostra destinazione è ancora sconosciuta: ora ci troviamo a una cinquantina di chilometri da Kiev”. 16 ottobre: “Il viaggio ormai si avvia alla fine. Forse stasera o domattina smonteremo dal treno per proseguire a piedi verso le località a noi assegnate. Questa sera ci troviamo nei pressi di Kursk. Il tempo qui è uguale a quello che fa d’inverno in Italia e la campagna è già tipicamente invernale con le piante spogliate dalle foglie e i prati senza erba. Il viaggio quindi è molto monotono e soltanto nelle fermate si fa un po’ interessante per la turba di donne che si avvicina al treno per offrire uova in cambio di sapone e fiammiferi; per un pezzo di sapone da bucato danno perfino dieci uova. Di marchi non ne vogliono più sapere, reclamano solo cambio merce”.
In una lettera del 234 il cap. Dodi avvertiva che la sua compagnia era in un paesetto distante pochi chilometri da Kupiansk (a 120 km da Charkov); dovevano presidiare una zona e una cinquantina di chilometri di ferrovia. A causa del servizio effettuava frequenti ispezioni e notava che lo stato delle strade lasciava molto a desiderare; quando non pioveva la polvere pareva “sabbia di una spiaggia di mare e quando pioveva diventavano laghi di fanghiglia che attaccava come colla”. Ma presto sarebbe venuta la neve e il gelo e allora a parte il freddo, si sarebbe camminato meglio potendo adoperare le slitte. “La compagnia che ci facciamo fra noi ufficiali e soldati è veramente bella e serve a no tutti per dimenticare l’amarezza della lontananza dai nostri cari”. Venne novembre; la temperatura era mite, il sole era tornato e dava l’illusione ai combattenti di essere “sotto il bel cielo d’Italia”. Le giornate si accorciavano a vista d’occhio; non c’era luce elettrica, ma solo lucerne di fortuna che sporcavano dappertutto e facevano poca luce. I soldati si davano da fare per segare la legna per la scorta invernale. Il paese dove si trovavano era piccolo e la popolazione era poca essendo fuggita l’estate precedente, prima del sopraggiungere delle truppe tedesche. Erano rimaste poche donne e qualche bambino. Tutti erano molto cordiali con gli italiani, ma occorreva essere prudenti per non avere sorprese. “Questa gente – scriveva il cap. Dodi – vive in uno stato di miseria compassionevole. Manca di tutto e le è impossibile fare acquisti perché all’infuori di qualche negozio che vende il pane non esiste nulla”.
La temperatura cominciava a diminuire, il termometro spesso scendeva sotto zero: a Kupiansk il tempo scorreva lentamente; lo spettacolo di varietà dato da una compagnia russa anche discreta non era servito a distrarli, né a tirarli su di morale. Pesava su di loro la lontananza dai loro cari, l’irregolare recapito della corrispondenza, il pensiero dei bombardamenti che si intensificavano sulla pianura padana. Verso la fine del mese si sparsero notizie di spostamenti. La divisione avanzava di circa un centinaio di chilometri; il trasferimento doveva essere compiuto a piedi. Il capitano Dodi scriveva a casa di essere preso dai preparativi della marcia e della ricerca disperata di slitte per il trasporto dei materiali e degli uomini che eventualmente non potessero andare a piedi. Desiderava notizie della moglie e della piccola Gabriella, ma capiva che la grande distanza impediva che il servizio funzionasse regolarmente. “Forse col tempo mi abituerò e sopporterò serenamente anche questo sacrificio”.
Seguirono altre lettere affettuose e serene; poi ci fu una lunga pausa. Una lettera del 28 dicembre inviata dalla signora Dodi a suo marito venne respinta al mittente. E il silenzio cadde su di lui come su tanti altri. La signora Bruna morì nel 1945 di dispiacere, ma i familiari e il fratello continuarono le ricerche presso reduci. Fra le testimonianze più importanti abbiamo quella del suo colonnello, Giulio Cesare Salvi di Parma; ma quelle che ci sembrano più realistiche e drammatiche sono quelle del suo attendente, Nello Bertoncini di anta Croce sull’Arno, e di un suo soldato, Guerrino Pizzo di Pozzonovo. Attraverso le loro parole possiamo seguire le ultime vicende del capitano Dodi. Meno documentato è Guerrino Pizzo che si è limitato a scrivere. “Sì, lo conoscevo; siamo stati assieme nella zona di Rossosch per due mesi, novembre e dicembre ’42. E poi il 10 gennaio ’43 abbiamo cominciato la ritirata e siamo rimasti prigionieri vicino al paese di Rovenck, catturati dai partigiani dopo dodici giorni di cammino; ci hanno trattati da prigionieri, cioè molto male; siamo stati assieme quindici giorni e poi ci hanno separato, chi in un campo chi nell’altro, e non abbiamo più avuto la fortuna di vederci. Le marce che ci hanno fatto fare per condurci indietro sono sempre avvenute a piedi, lunghe e con poco cibo; e a piedi ci hanno condotto al punto di partenza della ritirata. Poi ci hanno fatto salire in tradotta per condurci in vari campi di concentramento. Il signor capitano ci dava sempre coraggio e teneva alto il morale; di salute allora stava bene. Il campo di concentramento era il “165”. Io ho dovuto lasciare il campo perché avevo bisogno di cure avendo un piede congelato. E poi mi hanno portato in Siberia e là sono rimasto fino all’agosto 1945, epoca in cui mi hanno rimpatriato e sono rientrato in Italia il 28 ottobre”.
Ma Nello Bertoncini, che era attendente del cap. Dodi, fu quello che gli fu vicino più a lungo. Ed ecco il resoconto di quelle drammatiche ore.
“Il 16 gennaio ’43 verso le 21 lasciammo le posizioni per ordini superiori; ci servimmo di alcune slitte portando con noi il materiale che avevamo in carico. Dovevamo riunirci con le altre divisioni dell’Armata per combattere e aprirci un varco perché ormai eravamo accerchiati. Il posto di concentramento era lontano, il percorso era brutto per la neve e il freddo. Camminammo così a fianco di una colonna di alpini e rumeni per due giorni e due notti riposando solo qualche ora per mangiare e chiudere un occhio. L’ammassamento di slitte, di macchine e di uomini ormai già dispersi dal loro reparto, portò la confusione anche nella nostra compagnia e così nella notte tra il 18 e il 19 gennaio ’43 eravamo rimasti in pochi ancora compatti: il signor capitano, il sottotenente Scarparo e cinquanta uomini. Era l’una di notte; decidemmo di dormire un po’; eravamo arrivati in un grosso paese. Io e l’attendente del s.t. Scarparo eravamo incaricati di trovare alloggio; entravamo nelle case ormai tutte piene di militari italiani, rumeni, germanici e così camminammo per una strada larga fiancheggiata da case con in mezzo una folta colonna di uomini e di mezzi di trasporto di ogni specie. Ad un certo punto (uscivo da una casa) trovai una delle nostre slitte rovesciata; aiutai il conducente a scaricarla; questi mi disse che il signor capitano era poco avanti con gli uomini e le altre slitte. Camminai svelto e non lo trovai, cercai un’ora intera e non vidi più nessuno. Mi sentii solo e stanco. E da quella notte il signor Capitano non lo vidi più”.
Tratto da " LA LIBERTA' " - quotidiano di Piacenza Domenica 19 maggio 1963
La figlia del Cap. Giuseppe DODI, comandante della 1a Compagnia del 277° Rgt. Ftr. DIVISIONE VICENZA, ci ha messo a disposizione una lettera scritta alla sua famiglia dal Col. Giulio Cesare SALVI, comandante del Reggimento, nella quale è presente una testimonianza significativa delle situazioni affrontate dalla Divisione nelle sue ultime settimane sul fronte del Don.
Nella trascrizione della lettera si è scelto di lasciare il testo nella versione originaria.
Il Cap. DODI venne catturato dai Sovietici e risulta deceduto nel Campo 56 di UCIOSTOJE in data 31 marzo 1943.
Egregio sig. Cornia Renato Parma 14 novembre 1946
A riscontro della sua datata 28 ottobre 1946, per rappresentarle quanto a mia conoscenza sulla sorte del Cap. Dodi già com/te la 1a Cp. del mio reggimento, al fronte Russo.
Il Cap. Dodi che io vidi sino al 6 gennaio 43, si trovava dislocato col suo reparto alla difesa Sud-orientale di Rossoch sede del Comando di Corpo Armata Alpino, dal quale dipendeva il reggimento. La 1a Cp. appoggiava la sinistra al fiume Kalitva e la destra si saldava verso il paese di Ukrainez colla 2a Cp. del reggimento (ten. Daoglio testé rimpatriato e di cui le fornisco l’indirizzo che sono riuscito ad avere). Il Cap Dodi col suo comando di Cp. stava al centro dello schieramento del suo reparto e un po’ arretrato appoggiato al paese di Morissovka. Di certo sino al 15 gennaio è rimasto al suo posto di Comando, dal quale faceva giornalmente puntate sul posto di schieramento della compagnia, sia per rendersi conto dei lavori di fortificazione che per organizzare la vita dei suoi uomini, in quanto erano in pieno gennaio costretti con mille difficoltà a scavare colle trincee anche i ricoveri per dormire e ripararsi dal freddo intensissimo.
Ho cessato dal 6 gennaio di vedere l’ufficiale perché in tale data fui sostituito da altro colonnello nell’incarico del Comando del reggimento. Ho fissato la data del 15 gennaio come certa di presenza del capitano al suo posto di Comando, perché fu appunto il 15 gennaio che carri armati russi sorpresero le truppe del mio btg. durante la notte e penetrarono in Rossoch. I reparti tagliati fuori dalla sede naturale di ripiegamento, in parte notevole furono catturati (anche perché le cp. del btg. avevano ognuna circa 2 km di fronte e quindi non poterono essere rapidamente raccolte dagli ufficiali) e parte si dispersero verso N attraversando il Kalitva gelato, cercando di raggiungere i reparti della Div. che il 17 iniziarono il ripiegamento dal Don. Il Kalitva è un affluente di destra del Don e Rossoch si trova sul fiume Rossoch affluente di sinistra del Kalitva. Dai pochi superstiti che furono scampati alla triste sorte, seppi nel lontano 43 quanto riguardava la sorte del mio povero I° btg. Da allora attesi con ansia incessante che venisse confermata la tesi della prigionia e di conseguenza, ravvivata la speranza del rimpatrio. Quasi 4 anni sono trascorsi da allora e solo 10 ufficiali del reggimento sui circa 120 dispersi (prigionieri) sono rimpatriati nel mese scorso. Nulla mi è stato possibile sapere di preciso di nessuno dei miei cari compagni d’arme che purtroppo non sono rimpatriati. La maggior parte degli assenti è stata vittima degli stenti e dei disagi formidabili imposti dal nemico nei primi mesi della prigionia, moltissimi i decessi per tifo petecchiale. Nel ricordare l’ottimo Cap. Dodi suo parente, mi è gradito esprimere tutta la vivezza del mio pensiero affettuoso e memore per l’ottimo ufficiale che con tanto spirito di abnegazione si prodigava attraverso mille difficoltà di ogni genere, per sostenere gli uomini affidati alla sua responsabilità. Ricordo la sua espressione buona e pacata colla quale giornalmente si tratteneva con me, sino al 6 gennaio, e l’insonne attività che svolgeva per assolvere il durissimo incarico. Le fornisco l’indirizzo del ten Daoglio, che ripeto era legato da molti rapporti di solidale cameratismo col capitano e che spero possa riuscire a darle ulteriori particolari dell’ufficiale. Non so se avendo taciuto sino ad oggi, sia ancora possibile sperare. Se così fosse io sono vicino alla famiglia nella speranza e mi creda con tutto il cuore di compagno affezionato e memore. Io che ho vissuto la loro vita e la grande tragedia, dalla quale solo il miracolo mi volle scampato, non dimentico né dimenticherò mai, chi tanto sofferse e tutto diede nel nome santo di questa nostra martoriata Patria.
Mi creda cordialmente dev.
Collo Salvi G. Cesare