Fante Giuseppe BRUNO

di Vito e Rosa Schirinzi

278° Reggimento II Battaglione

nato a Melissano – Lecce 3.1.1917

Imprigionato  il 27.1.1943 (dalla cavalleria cosacca) nei pressi di Valuyki -  Валуйки

Rimpatriato  il 2.11. 1945 dai campi di Pinjug a Phakt Aral – Пахта‐Арал - Tashkent


nota:  PAKTA ARAL Asia centrale - Kazakistan meridionale

Era un complesso di 6 lager situato a 200 Km. a sud-ovest di Taskent. Iprigionieri erano adibiti alla coltivazione del cotone. I primi italiani arrivarono nel settembre del 1943 e l'anno seguente vi furono trasferiti quasi tutti gli italiani sopravvissuti agli altri lager.

Vi morirono 298 italiani, molti dei quali anche nel 1945.


e tie nu sinti u fiju du Manueli? Giuseppe Bruno di Vito e Schirinzi Rosa nasce a Melissano il 3/1/1917. Sin da ragazzo aiuta la famiglia nel lavoro dei campi, consegue la 5ª elementare ma nel frattempo dimostra una certa predisposizione per la musica tanto da essere aggregato come allievo musicante nella banda reggimentale del 47° Rgt. Ftr. al momento della chiamata alle armi il 3/5/1937. Nonostante abbia assolto gli obblighi militari, così come centinaia di altri salentini, è richiamato alle armi il 26/1 del ’41 e aggregato alla requisizione di quadrupedi a Martina Franca per l’Albania. Nell’intervista del 23 gennaio 2013 egli così racconta le sue esperienze di guerra: «Nel gennaio del 1941 fui richiamato alle armi e inviato presso la caserma Trizio di Lecce, poi a Martina Franca per selezionare i muli che dovevano partire per l’Albania, dopo fui messo di guardia a Brindisi in un campo di 93 prigionieri greci catturati nel conflitto greco - albanese e da lì inviato a Taranto come vigile urbano. Devo dire che a Taranto abbiamo svolto il compito assegnato con grande bravura tanto da meritare i complimenti dei nostri superiori. Nel frattempo partecipai come comparsa nell’opera lirica “Tosca” con Mario del Monaco. Nell’ottobre del ’42 partii per Brescia assegnato dapprima al 277° Rgt. Ftr. Vicenza e poi inserito al 278° con destinazione Russia. Il 12 ottobre ‘42 partiamo da Bergamo e dopo aver attraversato l’Ungheria e la Romania arriviamo in treno a Starobelsk in Ucraina, dove c’era la sede del Quartier Generale dell’8° Armata; da lì a piedi fino a Podgornoje, vicino al fiume Don , dove la mia Divisione Vicenza era stata dislocata tra le divisioni Tridentina a nord e Cuneense lungo il Don. Per tutto il periodo fino alla ritirata noi alloggiavamo in un bunker costruito dagli alpini della Cuneense, che era interrato, ricoperto da un tetto di grossi tronchi disposti in senso contrapposto, a sua volta ricoperto da un metro di terra e neve, così robusto da resistere alle Katiusce; solo il 149mm riusciva a penetrarlo. In questo periodo un capitano di Taranto, un certo Greco, mi mandava in pattugliamento come porta -ordini da solo dal fronte del Don fino al comando che distava 7 km, armato di moschetto, due bombe a mano e una pistola; io chiedevo di farmi accompagnare dall’amico Presta Giuseppe, di Copertino, ma il capitano non acconsentì mai. Il 18 di dicembre i Russi sfondarono a nord attraverso l’armata ungherese e da sud attraverso Werch Mamon, accerchiando in una grande sacca tutte le divisioni del Corpo d’Armata alpino. A piedi percorremmo decine di km nella neve e nel freddo che in quei giorni raggiungeva i -40 sotto zero, attaccati continuamente dai russi e dai partigiani. Durante la ritirata, ormai sbandati in gruppi più o meno grandi, io mi ero rifugiato in una isba e per paura dei russi che potevano entrare mi ero nascosto sotto al letto, quando entrarono 15 alpini che una volta scopertomi sotto al letto mi cacciarono dall’isba; devo dire che gli alpini erano prepotenti sia nella ritirata che durante la prigionia. Il 27 di gennaio del ’43 la cavalleria cosacca ci fece prigionieri nei pressi di Valujki con quel che rimaneva della Julia, Vicenza e Cuneense mentre quel che rimaneva della Tridentina più a nord riusciva a rompere l’accerchiamento e sfondare la linea russa a Nikolajewka. A Valujki rimanemmo per un bel po’, rinchiusi in grandi capannoni, al freddo e senza mangiare; quando trovai nella neve una gallina congelata la mangiai cruda. Nel campo di Valujki le soldatesse russe trattavano male i prigionieri tedeschi coprendoli di bastonate e una volta mentre ero in mezzo a loro, stavano per bastonare anche me quando io ad alta voce dissi che ero italiano e loro risposero italianski karasciò e passarono avanti. Durante il trasferimento da Valujki al treno eravamo 94 scortati dalle soldatesse e da alcuni ragazzi armati di parabellum che non permettevano di uscire dalla fila, pena una scarica di mitra; in quella occasione ricordo due fratelli liguri di nome Castaldi, Francesco e dell’altro non ricordo il nome; quest’ultimo era uscito dalla colonna per bisogni corporali – Checco mi sto facendo addosso - e appena calati i pantaloni appena fuori dalla colonna fu freddato da una scarica di parabellum; il fratello Francesco si buttò per soccorrerlo ma io lo trattenni di forza altrimenti sarebbe stato ucciso anche lui. Sul treno, chiusi in un vagone in 80, ci diedero due gallette e due aringhe salate ciascuno senza alcuna provvista di acqua; io dissi ai miei compagni di non mangiare le aringhe salate ma, a causa del lungo viaggio e della fame, molti non mi ascoltarono e morirono di sete, altri furono costretti a bere la propria urina per poter sopravvivere. Dopo due giorni di viaggio il treno si fermò in aperta campagna e quindi potemmo dissetarci con la neve. Continuammo il viaggio ancora verso nord fino al porto di Arcangelo, in Siberia, con la temperatura fino a -51 gradi; da lì proseguimmo verso sud fino a Pinjug, un ospedale adibito a campo di prigionia; nel vagone eravamo partiti in 80, arrivammo al campo in 17. Ero a oltre 5000 km da casa insieme a centinaia di altri soldati italiani e -in numero minore- di tedeschi, ungheresi e romeni. Nei grandi padiglioni c’erano letti a castello di legno e pagliericci per terra; mentre cercavo un posto per sistemarmi sento una voce: “e tie nu sinti u fiju du Manueli?” era il compaesano Caputo Vito, anche lui arrivato nel campo con un altro treno, e nella tragedia la gioia di avere vicino un compaesano. Era il giorno di S. Giuseppe, il 19 marzo 1943. Al campo ci davano una pagnotta di pane nero e una brodaglia di miglio al giorno; la fame era tanta e lo è stata per tutto il tempo trascorso a Pinjug, quasi tre anni. Vito ed io riuscimmo a sopravvivere nei primi tempi grazie ad una capretta che trovammo nel campo e, di nascosto, la uccidemmo e la nascondemmo alla vista di chiunque. Quando Vito fu trasferito in altro campo, a Pakta Aral, nel Kazakistan rimasi molto male, e anche lui, e siccome io ero ammalato di tifo petecchiale ed ero in infermeria gli dissi che se mai fosse ritornato a casa di dire alla mia famiglia che io ero morto a Pinjug; invece io arrivai a Melissano due mesi prima di lui. Grazie alle cure del capitano medico Troisi (zio dell’attore Massimo Troisi) riuscii a sopravvivere. Oltre al tifo avevo un dito del piede congelato ma riuscii a guarirlo da solo togliendo l’unghia e massaggiandolo per giorni e giorni con la neve e con un batuffolo di cotone. Ricordo che nell’infermeria c’era una brava infermiera di nome Maruska Zavina, era molto bella, di madre ucraina e padre mongolo, bionda con gli occhi neri; mi piaceva molto, nonostante la prigione e la fame, ero comunque ancora giovane e dai capelli neri e ondulati, alla mascagna. Per cercare di essere simpatico le regalai un anello d’argento 95 che facevo con un certo Tonon Pietro di Motta di Livenza; le infermiere ci davano mezzo rublo d’argento, il Tonon lo divideva in due e ricava due anelli grezzi che io molavo con della terracotta e lucidavo pazientemente con pezzi di legno. Gli anelli che riuscivamo ad avere per noi li barattavamo per avere un po’ più da mangiare. Qualche volta, oltre alla solita brodaglia di miglio, ci davano delle albicocche secche, per le vitamine. Io le bagnavo e dopo averle mangiate, conservavo i noccioli, miei e quelli che gli altri buttavano, abbrustolivo i semi e con lo zucchero che mi dava l’infermiera, preparavo un dolce come la cupeta leccese; era così buona che anche le infermiere e la dottoressa, molto amica del capitano Troisi, la apprezzavano molto. Capacità di adattamento, inventiva e opportunismo erano doti necessarie per poter sopravvivere in quei posti, col freddo pungente e la fame. Ricordo anche episodi spiacevoli, quando tre soldati italiani scapparono dal campo, ma furono presi a circa 200 km di distanza; essi furono ricondotti al campo, messi in prigione e maltrattati tanto forte da farli morire. Degli alpini, anche loro prigionieri, non ho un buon ricordo; erano arroganti e prepotenti, si sentivano superiori a noi della fanteria e del sud: Quando ero ammalato nell’infermeria, c’erano anche due tenenti, Conticini Antonio e De Bellis (figlio di un generale) ammalati gravi di TBC e alcuni alpini venivano in infermeria a prendere il loro vitto, ma io con una sbarra impedivo loro di farlo perché erano miei amici. Il 23 agosto del ’45 si diffuse la notizia che saremmo stati rimpatriati; non potete immaginare la gioia nei nostri cuori, anche il capitano medico Troisi col quale avevo mantenuto una forte amicizia era nella lista dei partenti; ma il commissario politico del campo, col quale non c’era molta simpatia reciproca per via della mia amicizia verso l’infermiera bionda, mi disse: “Tu non parti perché sei ancora fascista e devi essere rieducato”. Non potete immaginare la disperazione e i pianti che mi presero; allora la dottoressa Ulianovna, amica del capitano Troisi, che mi aveva in gran simpatia, si mosse a compassione e andò a trovare il commissario e con lui rimase per qualche ora; non so cosa disse o fece ma ritornò e mi disse: “Bruno, puoi partire anche tu oggi”. Una donna meravigliosa; ancora oggi provo un forte sentimento di gratitudine quando la penso o ne parlo. Quello stesso giorno partimmo verso l’Italia, verso casa; attraversammo tutta la Russia, l’Ucraina, la Moldovia, l’Ungheria, l’Austria -dove ci fecero cambiare completamente di abiti per evitare che negli abiti ci fossero biglietti o informazioni contrarie alla loro propaganda comunista- e consegnati agli Americani al Tarvisio. Arrivati al Tarvisio, io come tutti gli altri sopravvissuti a quel terribile campo, ci buttammo a terra e baciammo l’amata patria. Al Tarvisio ci venne incontro una marea di persone che chiedeva notizie dei 96 loro familiari dispersi in Russia con le foto dei loro figli: tra queste riconobbi il tenente De Bellis. Mi avvicinai, era il generale De Bellis con sua moglie: gli raccontai del figlio ammalato di TBC e di averlo assistito per quel che potevo nell’infermeria del campo fino alla morte; mentre raccontavo la moglie piangeva, poi il generale mi ha portato in un palazzo vicino e mi ha fatto avere un vestito e delle scarpe nuove, vestito che ho indossato a Melissano fino a non molti anni fa. Da Tarvisio arrivai alla stazione di Casarano e da lì, a piedi, insieme a mio cugino, che si trovava per caso alla stazione per andare a Lecce, quando mi vide e riuscì a riconoscermi, volle accompagnarmi fino a casa seguendo la linea ferroviaria ed avvisare i miei genitori in anticipo, con le dovute cautele, perché ormai mi ritenevamo morto. Era il 2 novembre 1945». Bruno Giuseppe, nonostante i suoi 96 anni, al momento dell’intervista, era ancora lucido di mente e abbastanza autonomo nella sua casetta a Melissano. E' deceduto nell'agosto del 2014, pochi giorni prima del conferimento della onorificenza di Cavaliere della Repubblica da parte del Presidente Napolitano. L’ospedale 2074 di Pinjug si trova nella regione di Kirov, Russia, a circa 270 km dal capoluogo Kirov; in treno occorrono circa 8 ore. Nel campo vi sono due cimiteri per prigionieri, dove sono ancora visibili i tumuli delle fosse comuni, ora ricoperti da alberi e vegetazione di sottobosco. La maggior parte dei nostri soldati è sepolta nel primo cimitero [N.d.A., da Ministero della Guerra – Onorcaduti]. Nell’ospedale adibito a campo di prigionia, sono morti 939 prigionieri italiani, tra essi 5 sono leccesi: Pascali Antonio (classe 1919) di Lizzanello; Avantaggiato Luigi (1920) di Corigliano; Conte Teodoro Francesco (1921) di Monteroni; Perrone Carlo (1921) di Guagnano; e Bruno Giuseppe(1917) di Melissano, unico sopravvissuto.

Su gentile concessione di Marcello Quaranta autore del libro  FRONTE RUSSO c'eravamo anche noi, Castiglione (Le), Grafiche Giorgiani, 2a Edizione, 2016

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