Fante Leandro GUESCINI

conduttore automezzi

277° Rgt.  – II Btg. - Cp. Comando 

Rientrato vivo dopo la ritirata


Verso il Fronte

Pochi giorni dopo arrivò l’ordine di partire per la guerra, in Russia.
Mussolini aveva deciso di mandare dei rinforzi al Corpo d’Armata (ARMIR) impegnato nel fronte russo.
Prima che partissi venne a trovarmi mia madre con mia sorella Venerina.
Siamo stati insieme un giorno intero e prima di partire mi disse:
- Figlio mio, stai sempre molto attento! In guerra devi stare molto attento e ricordati quello che ti dice sempre tuo padre. Fa’ tesoro dei suoi consigli, lui che ha già fatto la prima guerra del 1918.
Le accompagnai in stazione e prima che partissero cercai di tranquillizzarle:
- State tranquilli a casa; io non dovrò andare in prima linea perché il mio compito è di fare il presidio e sarò sempre dietro. Noi col camion dobbiamo solo portare i rifornimenti e trasportare i soldati. Comunque, se dovessi andare in prima linea, saprò come comportarmi.
- Va bene figlio mio, stai molto attento – ripeté mia madre.
In giro si diceva che i russi non facevano prigionieri, ma fucilavano sul posto; questo non ebbi il coraggio di dirlo a mia madre.
Era il 18 di Ottobre del 1942. Partimmo tutti in treno, direzione Berlino e da lì attraversammo la Polonia. Dopo diversi giorni arrivammo a Kupians, una città all’est dell’Ucraina, oggi quasi ai confini con la Russia. Quella volta l’Ucraina era una regione russa.
Fummo subito distribuiti nelle varie zone con l’obbligo di presidiare una cerchia di paesi dell’Ucraina, in pratica le retrovie del Corpo degli Alpini.
Io facevo parte del 274° reparto autisti.
La Divisione Vicenza era composta da due reggimenti, il 277° e il 278°. Per la maggior parte erano soldati molto giovani ed inesperti, tutti del 1922 che non avevano ancora compiuto il servizio di leva e avevano appena fatto il Car; l’altra parte erano richiamati, contadini, artigiani, calzolai, elettricisti, tutti sui 28/30 anni, ma anch’essi ugualmente inesperti e provenienti da diversi corpi militari.
Prima della

Il presidio

Il loro compito iniziale non era quello di andare al fronte, ma rimanere nelle retrovie a fare presidio e assistenza, e tutto quello che serviva alle compagnie.
Io ero del 277° Reggimento, Compagnia Comando, 2° Battaglione; conducevo un’autocarretta che era l’unico mezzo a disposizione, ma dato le sue dimensioni ridotte rispetto a un camion, poteva muoversi bene sia nelle strade che nelle campagne. Trasportavo i soldati, i viveri e i vestiti in loro soccorso; presidiavamo una cerchia di paesi e vivevamo nelle case con i civili in attesa di nuovi ordini.
Spesso dovevo fare anche dei servizi extra, tipo accompagnare gli ufficiali di comando al controllo delle varie compagnie. Viaggiavamo sempre con dietro quattro uomini armati di mitraglia per la sicurezza di tutti.
Un giorno, ricordo, stavo trasportando il colonnello comandante del reggimento. Era notte e camminavamo con le luci basse. La strada non si distingueva bene quando ad un tratto il mezzo andò con le ruote nel fosso , si inclinò e si bloccò di colpo senza poter continuare il viaggio. Il colonnello diede una testata nel parabrezza e dal dolore gridò:
- Dove stai andando! Mi vuoi ammazzare? – Mi resi conto di quello che era capitato, ma non potevo farci niente. Chiamammo subito gli aiuti e riuscimmo a giungere a destinazione.
Da quella volta, con mia grande felicità, non fui più chiamato a fare quel servizio. Ero contento perché era molto pericoloso viaggiare di notte e i partigiani spesso assalivano i mezzi; inoltre era diventata un’abitudine chiamare Guescini perché avevano fiducia in me.
Stavo bene, anche perché facevo parte della Compagnia Comando: non mi mancava niente e, a confronto degli altri militari, conducevo una vita migliore.
Era poco prima di Natale, sempre del 1942 ed eravamo fermi da qualche giorno in una casa. Poco dopo pranzo feci un giro a piedi per il paese, quando vidi in una cantina un signore che stava travasando qualcosa in una damigiana; mi avvicinai e chiesi cosa stesse versando:
- Vodka! - mi rispose e me ne offrì un bicchiere. Io non la conoscevo, non sapevo cosa fosse, ma dopo il primo rifiuto di educazione accettai, anche perché era molto freddo e pensavo che fosse un liquore che mi potesse riscaldare.
Il primo sorso lo gustai molto volentieri: era buona e scaldava lo stomaco. In un sorso scolai il bicchiere e lo ringraziai tanto, ma il russo ridendo insistette che bevessi ancora. Stava ridendo sicuramente perché conosceva le conseguenze a cui sarei arrivato. Non mi tirai indietro: era buona, così scolai anche il secondo bicchiere. Ad un certo punto sentii come se stessi volando, come se i piedi mi si sollevassero da terra e mi prese paura di non poter più arrivare a casa. Mi misi a correre velocemente e per fortuna riuscii ad arrivare e mi buttai subito nel mio pagliericcio. I miei amici, preoccupati, mi guardavano e mi chiedevano cosa avessi fatto, ma io soffiavo e non riuscivo a parlare; capirono cos’era accaduto e mi lasciarono dormire. Mi svegliai a tarda sera e raccontai ai miei amici l’accaduto tra le risate di tutti.
Verso mezzanotte sentimmo degli spari provenire da poco lontano e prendemmo tutti paura perché pensammo che fossero i partigiani. Ci armammo subito, ma non sapevamo cosa fare: avevamo paura di uscire, però dovevamo farlo perché i partigiani ci potevano assalire.
Io presi il coraggio di uscire per primo e tutti gli altri vennero dietro. Gli spari provenivano da un caseggiato poco lontano, ma si sentiva anche suonare una fisarmonica e cantare. Capimmo che c’erano dei soldati tedeschi che stavano festeggiando facendo baldoria. Ci riprendemmo dallo spavento, ma pensammo anche di vendicarci in qualche modo per la paura presa. Decidemmo di sparare tutti insieme per far sembrare loro un attacco. Si fece subito un grande silenzio: la fisarmonica non suonava più, le voci si zittirono, le luci si spensero ed anche loro ebbero un grande spavento. Alla fine andò tutto bene e tornammo tutti a dormire.
Era un periodo di stallo e attendevano nuovi ordini, molto probabilmente di presidiare altre zone in sostituzione di altre Divisioni nelle retrovie del fronte.
Io, essendo della Compagnia Comando, godevo di una certa libertà: ero libero di muovermi e mi capitava anche di dare dei viveri (formaggio, saponette,...) ai civili e in cambio ricevevo dei marchi. Erano marchi dell’occupazione, che assieme alla paga decadale, ogni tanto, spedivo a casa.
Solo dopo seppi che quei soldi non arrivarono mai a destinazione

la ritirata

Un giorno arrivò l’ordine di prepararci per la partenza, ma non conoscevamo la destinazione.
Caricammo tutti i mezzi di vestiti e ci mettemmo in colonna in attesa, con il motore acceso pronti per la partenza. Il motore doveva stare acceso per evitare che il freddo, con una temperatura che oscillava da -20 a -40°, potesse bloccare tutto.
Eravamo pronti a partire, 60 mezzi con i motori accesi, quando arrivò l’ordine di scaricare i vestiti per caricare i viveri. Approfittai subito per donarli alle famiglie russe che vivevano nella povertà più totale. Questi, felicissimi, correvano a prenderli per portarli nei loro bunker che erano delle grosse buche fatte sotto terra vicino le loro case.
Rimanemmo per 3 giorni e 3 notti fermi con i motori accesi.
Il mio camion era il primo della colonna, quando mi si avvicinò un capitano del comando del reggimento che io già conoscevo e mi disse:
- Cosa fai Guescini?
- Sto attento che non si spenga il motore, signor capitano!
- Spacca tutto!
- Come?
- Spacca tutto!
- Ma perché?
- Siamo accerchiati! Stasera stessa partiamo a piedi per la ritirata. Avvisa tutti i tuoi compagni di fare la stessa cosa!
- Cosa??? Vigliacchi!!! Sono 3 giorni e 3 notti che siamo qui fermi. A quest’ora potevamo essere in Italia!
- Non è colpa mia - rispose il capitano.
- La mia di meno. Lei è al comando del reggimento, non io !
Avevo paura perché era molto freddo e non ero abituato a camminare come gli altri. Fino ad allora ero andato sempre con la mia autocarretta.
Comunque bisognava partire. Presi la zaino, lo riempii di viveri. Una bottiglia di cognac che avevamo per scaldarci e per vincere le paure ed alcune pagnotte di pane che poi divisi con altri che non avevano niente da mangiare. Avevo sempre più degli altri perché trasportavo viveri e vestiti: ne approfittai anche per indossare dei vestiti nuovi.
Fu così che partimmo a piedi; lo ricordo bene, era sera e le strade si riconoscevano solo perché la neve era calpestata, ma era tutto ghiacciato.
Dopo tre giorni di cammino dovemmo tornare indietro da dove eravamo partiti perché avevamo sbagliato strada. Si girovagava senza una meta precisa, come se ci fosse un complotto per farci perdere tempo e cadere dentro l’accerchiamento.
La notte si dormiva sopra la neve. Io mi ero procurato un sacco a pelo che tenevo nello zaino: lo stendevo sulla neve ghiacciata. Man mano che ci ritiravamo, ci univamo con altre compagnie di italiani di tutte le divisioni e la colonna diventava sempre più lunga.
Dopo diversi giorni di cammino, una notte, ci fu un grande combattimento con le truppe russe: cercavano di chiuderci dentro l’accerchiamento, ma noi riuscimmo a sfondare la linea.
I russi si ritirarono.
Avevamo vinto, ci sembrava di essere liberi, c’era euforia, eravamo contenti, e decidemmo di fermarci a riposare per un paio di ore. Io vidi un mucchio di neve; provai a muoverla e vidi che sotto c’era della paglia e mi misi a dormire sopra.
La colonna aumentava sempre di più: si formavano tante piccole colonne parallele; si univano tedeschi, ungheresi e più si camminava più gente si raccoglieva. Procedevamo piano oltre che per la stanchezza anche perché trasportavamo viveri, munizioni e altra roba abbastanza pesante.
I tedeschi avevano dei carretti trainati da cavalli enormi, molto forti e trasportavano casse di munizioni. Dovevamo oltrepassare una collina: noi eravamo in basso e stavamo lentamente salendo quando i russi ci videro e cominciarono a sparare colpi di mortaio. Fortunatamente per noi, non avevano una grande mira.
Presi alla sprovvista cominciammo ad aumentare il passo perché volevamo salire in alto e svalicare per non essere più sotto tiro, ma non era facile: eravamo molto stanchi, troppo stanchi. Davanti a me c’era un tedesco con un carretto trainato da due cavalli che frustava a tutta forza per arrivare in cima il prima possibile; mi attaccai al carretto per farmi trainare, ma il tedesco mi vide e mi urlò qualcosa. Feci finta di non capire anche se potevo immaginare cosa volesse, ma io non mi staccai. Poco dopo mi arrivò una frustata sulla mano che dal dolore mi buttai in terra: un male così atroce, su quella mano infreddolita, che piansi tanto.
Poco dopo, davanti a me, un colpo di mortaio fece saltare il tedesco col cavallo e il carretto.
Guardai sbalordito: qualcuno mi aveva salvato la vita.
Ma non c’era tempo da perdere così ripresi a correre.
Arrivammo tutti in cima e scendemmo lunga la vallata al riparo dai colpi dei russi.
Nei giorni successivi ci furono altri attacchi dei russi, ma la compattezza dei nostri soldati riuscì sempre ad evitare la disfatta e a non farci accerchiare.
Un giorno, ricordo, vidi in colonna in mezzo a noi un soldato: era strano, era vestito come noi, ma mi accorsi che non era dei nostri: era un partigiano russo che si era mischiato per capire i nostri movimenti, controllare la situazione, studiarci meglio e capire le nostre potenzialità per poi riferire al suo comando. Mi avvicinai e provai a dire qualcosa in italiano, ma non rispose: non poteva capire quello che dicevo. Allora provai a dire in russo quelle poche parole che conoscevo e lui mi guardò supplicando:
- No, no! Non sono partigiano! Tieni, guarda, vuoi un pagnotta di pane?
Non sapevo cosa fare perché se avvisavo gli altri poteva capitare di tutto, e lo vedevo molto impaurito.
- Va bene – dissi - però scappa via in fretta e non farti vedere mai più!
Non ebbi il coraggio di chiamare nessuno.
Lui prese la grossa pagnotta di pane, me la mise sotto il braccio per farmi stare zitto e scappò.
Una notte fummo attaccati ancora dai Russi. Eravamo arrivati troppo vicini alla linea di accerchiamento senza accorgercene. Il fuoco dei loro cannoni illuminava tutta la zona e ci faceva vedere le file dei loro carri armati. Noi avevamo solo fucili, mitraglie e bombe a mano, tutte armi leggere perché dovevamo camminare. Sentivo il fischio dei proiettili che mi sfioravano. Allora mi misi dietro una pietra per ripararmi, ma in quel momento passò un tenente della 1° Compagnia che, vedendomi, mi urlò:
- Cosa fai lì??? Va’ avanti con gli altri!!
- Lei cosa fa qui, perché non va avanti?
- Io mando su i militari! Tu sei un traditore della patria!
- Anche io mando su i militari! – gli risposi
Il tenente tirò fuori la pistola e me la puntò dicendomi:
- Va’ avanti o ti sparo!
A quel punto tirai fuori anche io la mia pistola, come autista avevo in dotazione la pistola, una
berretta, con la bandoliera, e la puntai contro di lui:
- Ce l’ho anche io la pistola, tenente!
- Ci rivedremo dopo l’avanzata, io ti troverò! - minacciò il tenente sorpreso della mia reazione.
Ma non ci vedemmo mai più.
Il nostro attacco aveva ancora sfondato l’accerchiamento e i russi si ritirarono.
Non si capiva se era una tattica dei russi aprire l’accerchiamento e chiuderci più avanti per finirci
lentamente o se era veramente la nostra voglia di
salvarci che ci dava la forza e riusciva a rompere la
linea.
Dal comando arrivò l’ordine che eravamo liberi e
quindi potevamo riposarci per 2 ore prima di
ripartire. Eravamo tutti stanchissimi, senza mangiare
e senza bere: eravamo sfiniti. Trovai un posto per
stendere il mio sacco a pelo. Frattanto ci fu un altro
combattimento con i russi, il nostro contrattacco
riuscì ancora ad avere il sopravvento e continuarono
la ritirata.
Io mi ero appisolato così profondamente che non mi
accorsi di niente e quando la colonna ripartì, rimasi a
dormire non so per quanto tempo.
Mi svegliai che era giorno.
Non c’era più nessuno, ero solo, anzi no, c’erano altri 6 o 7 soldati sparsi qua e là nella mia stessa situazione. Piangevamo, non sapevamo cosa fare, eravamo disperati. Io ero il più giovane, avevo 20 anni, ma ero anche il più coraggioso: cercai di tranquillizzare tutti e di trovare un soluzione.
Dissi di raccogliere un po’ di armi che gli altri avevano lasciato in terra perché stremati dalle fatiche. Io raccolsi anche 2 bombe a mano che misi nelle tasche enormi del mio pastrano. Dissi di stare uniti e di continuare ad andare avanti restando però lontano dai paesi perché era lì che si faceva la guerra

Ricordi di Alfio Guescini, figlio di Leandro


156° Divisione Vicenza

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156° Divisione Fanteria Vicenza